· 

Gig Economy

Pro e contro del lavoro 2.0

Dall'Inglese Gig Economy, l'economia del lavoretto, è il modello basato sulle prestazioni on-demand, sfruttato dalle nuove startup digitali, che sta prendendo sempre più piede nella società odierna tanto tra gli studenti quanto tra i lavoratori che vogliono arrotondare nelle ore libere.

 

Esso nasce dalla Sharing Economy, differenziandosi però dalla “madre” per un piccolo aspetto: se nello Sharing vi è un servizio che esisterebbe in ogni caso e che viene condiviso per ripartirne i costi (ad esempio uno spostamento in automobile lungo una tratta abituale), nella Gig Economy il servizio viene fornito “a chiamata” da un soggetto che non ne usufruisce in prima persona ma che offre una disponibilità oraria in base alle proprie esigenze, facendo quindi venire meno la parte della condivisione.

 

Il settore per eccellenza in cui si è instaurata la Gig Economy è senza dubbio quello dei trasporti, a partire dall’azienda californiana Uber -che dal 2009 fornisce un servizio di taxi prenotabili via app in 633 città del mondo- passando per le compagnie di food delivery, capitanate da Foodora e Deliveroo; in secondo piano ci sono invece le piattaforme di servizi freelance, che siano servizi fisici (TaskRabbit per “affittare” dai falegnami agli estetisti) o virtuali (per commissionare compiti digitali tramite app come Fiverr). Faticano a stare in testa alle classifiche, invece, le aziende italiane come Foodinho, confluita due anni fa nella società spagnola dell'anything delivery Glovo.

 

A prima vista le prospettive che queste compagnie offrono ai potenziali freelancers e fattorini è allettante: flessibilità assoluta e gestione autonoma dell'orario di lavoro senza nessun vincolo, ottimi guadagni, premi per la “produttività” e l'efficienza, insieme ad una valorizzazione democratica del proprio profilo in base ai feedback lasciati dai clienti.

 

Ma ciò che sembra una semplice evoluzione delle abitudini della popolazione e delle modalità di lavoro, rappresenta in realtà una regressione per i “collaboratori autonomi” -eufemismo utilizzato dalle aziende per aggirare la parola “dipendenti”; le accuse da loro mosse verso il sistema della Gig Economy, dunque verso i loro “padroni”, sono l'assenza degli stessi diritti e tutele che spettano ad un qualsiasi lavoratore dipendente, quali le ferie e le malattie pagate, i contributi pensionistici e il salario minimo.

 

A tal proposito, nel 2017, la Corte del Lavoro di Londra ha definito illegale la modalità di assunzione di Uber, dando ragione ai due drivers ricorrenti che rivendicavano il loro status di dipendenti dell'azienda, revocando così la licenza della stessa, che, aspettando la data di scadenza, ha già comunicato l'intenzione di ricorrere in appello. Una situazione analoga si è verificata in Italia lo scorso novembre quando 6 riders di Foodora hanno intentato una causa nei confronti dell'azienda colosso del cibo a domicilio, per essere stati licenziati a seguito di una manifestazione contro l'introduzione del pagamento a cottimo; retribuzione, secondo i sostenitori dei corrieri, degna dell'età feudale.

 

Gli argomenti a difesa delle società citate in giudizio sono i seguenti: i lavoratori non sono obbligati ad accettare tutte le consegne proposte (anche se in caso contrario si incorre in un sanzionamento del proprio “profilo”) e che la mancanza di tutele da dipendenti deriva dall'elasticità che viene offerta loro nello scegliere il proprio orario di servizio.

 

Per concludere, la Gig Economy è vista da molti come un rimedio anti-crisi, un'integrazione dello stipendio principale per togliersi qualche sfizio, o perché no, un lavoro full-time sul quale basare il proprio reddito, che sia per scelta autonoma o a seguito di un licenziamento.

Al giorno d'oggi sapersi reinventare è l'unico modo per sopravvivere all'aggressività della globalizzazione, e pare che i gig workers lo stiano facendo bene.

Scritto da Tommaso Carlo Rallo 3C

Scrivi commento

Commenti: 0