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Evasione dalla realtà

Scritto da Lorenzo Campioni e Lorenzo Sferra, VC

La sera del 30 ottobre 2017, il progetto “Ottava Arte” guidato da Fabio Cavalli come ogni anno da quindici anni, ha presentato nell’Auditorium del carcere di Roma Rebibbia l’opera shakespeariana dell’Amleto, i cui personaggi erano interpretati dagli stessi detenuti. La tragedia è stata rivisitata in una chiave molto particolare.

 

L’occasione di toccare con mano questa realtà è stata offerta a noi ragazzi del VC che, non appena arrivati al carcere, ci siamo subito trovati immersi in questo ambiente lontano dalla quotidianità di tutti noi. Essendo un braccio di massima sicurezza del sistema, abbiamo dovuto rispettare una serie di controlli rigorosi prima di poter entrare, lasciando tutti i nostri effetti personali, cellulare in primis, per poi passare sotto a un metal detector. Non appena entrati abbiamo cominciato a renderci conto realmente del posto in cui ci stavamo muovendo, vedendo un po’ quella che è la struttura effettiva di un carcere.

 

Successivamente abbiamo preso posto all’interno del teatro e abbiamo atteso l’inizio dello spettacolo, in streaming con diversi teatri e carceri d’Italia. Non appena iniziata questa rivisitazione dell’Amleto abbiamo subito notato tutti quanti che non era la classica rappresentazione con linguaggio in prosa, ma i dialoghi tra i detenuti-attori erano molto vicini alle loro realtà, tant’è vero che parlavano in dialetto; ciò ha dato spunto per confrontare le tematiche di giustizia e vendetta narrate nella tragedia, con quella che è la realtà che vivono e hanno vissuto i detenuti lì reclusi. Possiamo quindi mettere a paragone i complotti del castello di Elsinore, con quelle che sono le dispute tra famiglie nelle città dell’Italia meridionale. Questo approccio “diverso” al mondo del teatro è simbolo di un rapporto diretto e sincero con quello che sono i loro vissuti.

 

Un’innovazione assoluta a livello internazionale è quello di aver portato nelle case della gente lo spettacolo attraverso la trasmissione su teleschermo. Oltre ad avvicinare e a sensibilizzare, l’intento è quello di “scarcerare” la passione per il teatro, portarla al di fuori della struttura detentiva, dato che i detenuti non possono averne la possibilità. È un momento speciale per dare espressione dell’amore che gli attori reclusi ripongono nello spettacolo ed hanno il diritto di veder manifestato, poiché sono già privati della cosa più importante che l’uomo ha: la libertà. In questo caso, il teatro fa da mediatore culturale fra diverse realtà sociali, divenendo così linguaggio universale comprensibile e condivisibile da tutti.

“Mi rivolgo a voi giovani, che siete il nostro futuro: vi auguro di non passare ciò che sto passando e di godere della vostra libertà in modo responsabile, perché io qui dentro ci sto invecchiando…”.

 

Queste sono le parole che il più anziano della compagnia teatrale ci ha rivolto alla fine dello spettacolo, quando al momento dei saluti, abbiamo potuto avere un contatto diretto con gli attori-detenuti. In relazione al contesto che abbiamo potuto osservare, abbiamo riflettuto sull’importanza del valore della libertà; il suo appello ci ha aperto una piccola finestra su una realtà così distante e difficile da concepire per chi non vive quell’ambiente, dove le mura impongono perennemente la vista dello stesso squarcio di cielo. Le sue parole erano colme di premura e speranza, come un nonno ha a cuore le scelte del proprio nipote. Il contatto con questo ambiente ci ha permesso di capire a fondo il valore significativo, per noi quasi scontato, della libertà.

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