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Un futuro con o senza plastica?

Scritto da Ludovico Crespi 4C

Al contrario di quello che si potrebbe pensare, le plastiche, anche quelle alimentari, non sono affatto inerti, ma reagiscono quando entrano in contatto con altri materiali: rilasciano dei composti liquidi e incolori chiamati ftalati, cioè degli additivi che servono a modificarne la struttura molecolare per dare delle caratteristiche meccaniche specifiche. Certamente sarà capitato a chiunque di ingoiare il classico pezzettino della plastica che avvolge il panino o rompere un dente ad una forchetta usa e getta e scoprire che lo si è appena ingerito; nessuno se ne preoccupa perché la plastica apparentemente non ha alcun effetto sull’organismo. 

 

Questa considerazione è purtroppo valida solo se si parla a breve termine, perché i sopracitati ftalati, ormai diventati obiettivo numero uno delle ricerche riguardo agli effetti della plastica sul corpo umano, sembra abbiano a che fare con l’alterazione del funzionamento del sistema endocrino. Alcuni studi svolti in diverse parti del mondo hanno avuto come risultato la stessa sconcertante verità secondo la quale gli ftalati possono avere lo stesso effetto degli ormoni estrogeni, causando così la femminilizzazione dei neonati maschi (gli effetti sono maggiori se la “terapia” inizia in tenera età) e la compromissione dello sviluppo dell’individuo.

 

La domanda ora è: “Come si fa a diminuire il contatto con queste sostanze che interagiscono con l’organismo?” La risposta non è del tutto semplice ma arriva in aiuto la legislazione mondiale riguardo ai tipi di plastiche che le caratterizza in base al nome del polimero (catena di molecole) del quale sono costituite. Essa prevede che ogni oggetto realizzato in plastica, prima di essere commercializzato in maniera legale sul mercato, debba superare dei test per garantire che sia ciò che dichiara di essere e che la sua composizione rispetti dei limiti riguardo agli additivi. Inoltre ogni articolo è caratterizzato da un numeretto, che può essere anche cerchiato o all’interno di un triangolo, che specifica di che tipo di plastica si tratti.

 

-1 PET polietilen-tereftalato, usato nella maggior parte dell’acqua e bibite in bottiglia in commercio, non andrebbe utilizzato più di una volta perché si degrada molto facilmente e andrebbe ritrattato tramite un complesso e costoso processo di pulizia, contamina il contenuto e facilita la proliferazione di batteri nel tempo. 

-2 PEHD polietilene ad alta densità, è usato per vasetti di yogurt e contenitori che durino nel tempo, ha impatto minimo sull’uomo.

-3 PVC cloruro di polivinile, cancerogeno e distruttore del sistema endocrino, contiene ftalati e bisfenolo A (stessi effetti degli ftalati sull’organismo), è il tipo di plastica con cui gli alimenti non dovrebbero mai entrare in contatto.

-4 PELD polietilene a bassa densità, usato per contenitori flessibili come le borracce dedicate agli sportivi, ha impatto minimo sull’uomo.

-5 PP polipropilene, usato sia per contenitori di ogni genere che per i più moderni servizi di plastica, è la plastica più sicura anche se è sconsigliato metterla a contatto con alimenti più caldi di 100 gradi.

-6 PS polistirene, usato per bicchieri usa e getta, non adatto alla conservazione e al riutilizzo.

-7 Altre plastiche, alcune organiche altre no; quelle organiche sono adatte alla conservazione ma deve esserne riportata la composizione, quelle inorganiche, tra cui il policarbonato, contengono bisfenolo A, dannoso per l’uomo.

 

La chiave per il rispetto del proprio corpo sta quindi nel seguire le raccomandazioni sull’utilizzo dei prodotti, ma immaginereste cosa succederebbe se ognuno comprasse e gettasse la propria bottiglietta d’acqua dopo un unico utilizzo? Ci ritroveremmo sommersi da tonnellate di plastica e l’ecosistema risulterebbe alterato e non in grado di funzionare. Quindi il primo punto di partenza per migliorare sotto questo aspetto è il rispetto dell’ambiente: che senso ha produrre plastiche usa e getta quando lo scopo primario del materiale era garantire qualcosa di poco costoso ma molto resistente nel tempo? I passi avanti che tuttora vengono fatti in questa direzione sono le ricerche sulle bioplastiche (che vedono l’Italia all’avanguardia con già alcuni brevetti -vedi l’ormai celebre MaterBi-), materiali che di plastico hanno solo la caratteristica meccanica, ma nulla in comune con i normali polimeri; infatti sono realizzate a partire da molecole vegetali come l’amido che non sono tossiche per l’uomo e che, nonostante non garantiscano la durata nel tempo, sono suffcienti a rimpiazzarare prodotti usa e getta come buste, bicchieri e posate da fast food.

 

Uno studio recente ha certificato che nell’acqua potabile che esce dai rubinetti, dalle sorgenti e dalle bottiglie di buona parte del mondo sono presenti le cosiddette microplastiche: minuscole  fibre di materie plastiche, esse sono il risultato di tutta la plastica dispersa nell’ambiente. Quindi  per dare una sterzata ad una tendenza così negativa dal punto di vista ambientalistico l’uomo deve cambiare il suo stile di vita, impegnandosi a scegliere, invece che la plastica, materiali meno inquinanti ma ugualmente duraturi come il vetro o il metallo e soprattutto meno aggressivi nei confronti dell’organismo.

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