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Come cambia la scuola italiana

Scritto da Marco Maiorana 3D

«La democrazia vive se c'è un buon livello di cultura diffusa. [...] se questo non c'è, le istituzioni democratiche […] sono forme vuote» (Tullio de Mauro).

«Una classe dirigente male alfabetizzata è la rovina di un paese, molto più di un crollo della Borsa» (Tullio de Mauro).

Uno dei problemi più grandi della nostra società negli ultimi anni è stato quello della costante perdita di coscienza di cittadini attivi e l’aumento esponenziale dell’indifferenza nei confronti della realtà attorno a noi; accanto ai favorevoli e ai contrari, è nata la categoria apolitica e apartitica dei “neutri”, coloro che non assumono una posizione definita perché non sono interessati a farlo.  

In generale, l’indifferenza e la perdita di valori fondanti, come la solidarietà e l’umanità, sono frutto di una crisi culturale del nostro paese. Nessuno crede più nella cultura, che viene ridotta a erudizione e sapere fine a se stesso, dimenticando il suo ruolo educativo fondamentale come strumento per divenire cittadini pienamente sovrani consapevoli del mondo che ci circonda.

Una della cause principali dell’inadeguatezza della classe dirigente italiana è stata proprio l’assenza di cultura.

La “crisi culturale” e l’impoverimento dei valori sono stati accompagnati da una crisi profonda della scuola pubblica statale. Ovviamente ognuno di noi non si forma solo “dietro i banchi”, ma la scuola rappresenta il primo ingresso in una dimensione collettiva e la prima forma di partecipazione a una “società in piccolo”.

Le riforme riguardanti l’ambito scolastico negli ultimi decenni sembrano aver dimenticato il compito fondamentale della scuola, cioè «l’educazione permanente degli adulti», come afferma Tullio De Mauro; in aggiunta a indispensabili argomenti di matematica, storia e filosofia, la scuola deve trasmettere i valori, educare uomini pensanti, cittadini consapevoli capaci di guardare il mondo in modo critico e plurale: un paese nasce nelle aule di scuola e un cittadino si crea sui banchi.

Negli ultimi decenni, caratterizzati dalla crisi economica, i governi hanno perseguito una politica di spending review sulla scuola pubblica con numerosi tagli. In particolare, la riforma Gelmini, varata nel 2011, dietro agli slogan della lotta agli sprechi, ha sottratto alla scuola pubblica e all’Università 9 miliardi di euro. Soldi sottratti alla formazione delle future generazioni.

Dal 2001 in poi, la scuola ha subito effetti devastanti da queste riforme: riduzione del personale e di orario, taglio delle ore di sostegno, accorpamento delle scuole, creazione delle “classi pollaio” sovraffollate e la presenza, sempre più diffusa, del precariato, come status dei lavoratori lontani così dalla stabilità di un lavoro fisso e dunque espropriati del proprio futuro non programmabile.

Nel 2014 l’Italia è stato il paese che, fra gli Stati europei membri dell’Ocse, ha speso meno per l’istruzione, in rapporto al proprio Pil.  

Nel 2015 il governo Renzi ha introdotto una riforma della scuola chiamata, orwellianamente, Buona Scuola.

Tra le tante novità, uno dei punti più controversi è il nuovo ruolo assegnato al preside (definito "sindaco" della comunità scolastica) che godrà di nuovi poteri, mai avuti prima. In precedenza infatti le scelte del dirigente erano maggiormente concordate con gli organi collegiali, quasi tutti eletti democraticamente nella scuola (consiglio di classe, consiglio di istituto e collegio docenti). Con la nuova riforma, il preside potrà scegliere i professori da inserire in organico tra quelli presenti nelle liste territoriali, potrà promuovere o bocciare (sentito il parere di un comitato) i docenti neo-assunti e premiare con un bonus in denaro gli insegnanti migliori. Il mondo della scuola trema di fronte all’idea che, con i 200 milioni previsti, i presidi possano premiare non tanto i docenti migliori ma i più ubbidienti, colpendo dunque la loro autonomia e indipendenza.

Il tema delle assunzioni è molto più complicato e ci sono due aspetti da considerare. Da un lato l’ingresso nel mondo della scuola di 150.000 docenti con l’obiettivo di porre fine alle liste d’attesa; dall’altro l’esclusione dei 40/60.000 precari di seconda fascia, che hanno collezionato anni di servizio. Tra gli aspetti di maggiore contestazione ci sono le agevolazioni previste in favore delle scuole private, come la detrazione fiscale sulle rette e gli school bonus, cioè le donazioni libere delle famiglie alle scuole statali e private. I rischi sono legati alla creazione di disuguaglianze tra scuole che non sono frequentate da famiglie con le stesse possibilità economiche (centro/periferia). Già ogni anno 700 milioni vanno alle scuole private dallo Stato (Espresso, febbraio 2015).

Per portare il mondo del lavoro dentro gli istituti la Buona Scuola ha introdotto l’Alternanza scuola-lavoro. Il progetto prevede che ogni studente di un Itis svolga 400 ore di stage e ogni liceale 200 ore di attività nel triennio. I corsi sono scelti dal dirigente che stipula le apposite convenzioni con le imprese che si occupano di tali attività.

Sebbene le premesse siano positive, in quanto l’Alternanza potrebbe aiutare gli adolescenti ad avvicinarsi alla concretezza di un mestiere, i progetti sottraggono molto tempo alla didattica, senza riduzione dei programmi, e spesso vengono selezionati dalla presidenza senza il parere degli studenti, quindi risultano poco utili, per quanto nobili, per il proprio corso di studio (a fronte di elevati costi per le scuole). Il rischio principale, inoltre, è che l’Alternanza possa diventare un escamotage da parte delle aziende per avere lavoro gratuito da parte degli studenti. L’accordo stipulato a ottobre 2016 tra McDonald’s e il Miur (riportato dal “Fatto Quotidiano”) ne è un esempio significativo.

La Buona Scuola ha poi stanziato soltanto 4 miliardi di euro per l’edilizia scolastica. I dati raccontano di una situazione critica degli edifici scolastici in Italia con il 30% che necessita di interventi di manutenzione urgenti (Legambiente 2011). In base ai dati presentati dall’Anagrafe scolastica (prevista dal 1996 e mai portata a termine fino al 2015), sono 33.825 in Italia gli edifici scolastici funzionanti, su un totale di 42.292. Ben 8.450 non risultano in funzione! Nel 65% dei casi gli edifici sono stati costruiti prima del 1974 e nel 4% persino prima del 1900!

Tra il 2013 e il 2016 si sono registrati 117 crolli nelle scuole.

Alla base della decisione presa negli ultimi decenni di disinvestire nella scuola, c’è l’assenza di un’idea di scuola e del ruolo che questa deve svolgere nella società. Tutte le riforme la avvicinano a un modello aziendalistico che sostituisce quello della “scuola di tutti e per tutti”, un nuovo tipo di istruzione che rischia di formare buoni tecnici (“teste calcolanti”) a piena e totale disposizione del mercato lavorativo, sempre più privo di diritti, ma senza “vis oppositiva” e spirito critico e, dunque, non pienamente pensanti.


Marco Maiorana 3D

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